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Osservatorio Balcani e Caucaso - Bosnia Erzegovina

venerdì 16 ottobre 2009

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domenica 26 luglio 2009

Libro Nr.6 - Giornale di guerra - Ed.Sellerio

Dopo che ci siamo arrovellati - ammesso che l'abbiamo fatto - sui nostri sentimenti per Sarajevo, ecco finalmente uno che ci dice con che sentimenti verso il resto del mondo la gente di Sarajevo si misura da anni con la morte, la mortificazione e la menzogna. Sono molte le cose, in queste pagine, che ci daranno fastidio. Ci darà fastidio scoprire quanto valgano davvero (valgono infatti, ma non tanto) i nostri aiuti umanitari; quale infamia possa mascherarsi con le magnanime e sconsolate dichiarazioni sul fatto che «tutte le parti sono altrettanto responsabili»; quanto poco eccentrica e primitiva e rassicurantemente «balcanica» sia Sarajevo e la sua gente, e quanto invece vicina e simile a noi (simile, almeno, a quello che noi ci vantiamo e ci illudiamo di essere); quanto poco, infine, ci si aspetti lì da noi - in un senso, Sarajevo ci ha abbandonati al nostro destino. Giornale e diario quotidiano, gli scritti di Dizdarević tormentano soprattutto per l'ossessiva ripetizione del resoconto di una vita con la morte e la fine di tutto, in cui ogni giorno è uguale al precedente ma peggiore, e mille volte si scrivono le parole fatali ormai, mai più, per riscriverle ancora una volta ancora più fatali e definitive. D'altra parte Dizdarević mostra, giorno dietro giorno, la faccia che nessuno vuol vedere di questa sporca guerra: e cioè che c'è una minoranza di banditi prepotenti e strapotenti, e tanta gente inerme, falcidiata e costretta ad abbassarsi sotto il tiro dei cecchini, ma attaccata alla propria città e alla vita civile, al ricordo di un altro modo di essere delle cose che è stato e che dovrà tornare. Se e quando tornerà, dovrà pur esserci uno specchio in cui ciascuno si guarderà in faccia. Anche questa resistenza asciutta e lucida, senza speranze e senza preghiere, può darci fastidio, qui, nel nostro padiglione degli specchi ruffiani. Adriano Sofri

Figlio di un ufficiale bosniaco, Zlatko Dizdarević è cresciuto «in una famiglia in cui ci si sentiva prima di tutto jugoslavi». Ha 53 anni, è sposato con Biljana e ha due figli. È il responsabile della redazione di guerra di «Oslobodenje» (significa: Liberazione), il quotidiano di Sarajevo che contava 60.000 copie prima della guerra, e ha continuato a uscire nella città assediata. Al giornale è stato assegnato, nel dicembre 1993, il Premio Sacharov dal Parlamento europeo.




Autore:
Zlatko Dizdarević
Titolo: Giornale di guerra. Cronaca di Sarajevo assediata
Titolo originale: Journal de guerre. Chronique de Sarajevo assiégée
Traduttore: Adriano Sofri e Zlatko Dizdarević
Anno di pubblicazione: 1994

[FONTE: www.sellerio.it]

Libro Nr.5 - Lo specchio di Sarajevo - Ed.Sellerio


Autore: Adriano Sofri
Editore: Sellerio
Anno di pubblicazione: 1997

domenica 19 luglio 2009

Libro Nr.4 - E se Fuad avesse avuto la dinamite? - Infinito Edizioni


Un giovane bosniaco vive da tempo in Italia. Torna a trovare i genitori e la vecchia nonna a Visegrad: sulle tracce del suo passato e di quello del suo paese. “E se Fuad avesse avuto la dinamite?”, secondo libro di Elvira Mujčić. Nostra recensione Qualcuno potrebbe dire che la storia non si fa con i se, e nemmeno con i romanzi. Elvira Mujčić non sembra d’accordo. Il suo “E se Fuad avesse avuto la dinamite?” dimostra infatti che anche la narrativa può contribuire alla memoria storica, parlando di vicende che altrimenti non arriverebbero al grande pubblico. Sui fatti della primavera-estate 1992 a Višegrad, e in generale nella Bosnia orientale, ci sono molte testimonianze, racconti, documenti raccolti dal Tribunale Penale Internazionale de L’Aja o pubblicati da vari media. Eppure sono poco noti ai più. Delle guerre bosniache si ricordano in genere l’assedio di Sarajevo, la divisione di Mostar o il genocidio di Srebrenica. Per altri aspetti invece la copertura mediatica, è stata decisamente inferiore, e così oggi la memoria.

E’ il caso di quanto avvenuto a Višegrad, la cittadina celebre per il ponte narrato da Ivo Andrić, che attraversando la Drina congiunge Bosnia Erzegovina e Serbia. Lì all’inizio della guerra i paramilitari serbi hanno compiuto atti di ferocia brutale. Racconta una testimone a Svetlana Broz: “I carnefici se n’erano già andati e siamo riusciti ad attraversare il ponte. Camminavamo a malapena. Per terra il sangue ci arrivava fino alle caviglie. Si scivolava. Delle budella ci si sono attorcigliate in mezzo alle gambe”. E sempre in quell’area è stato organizzato uno dei campi di reclusione e stupro etnico più sistematico ai danni di donne musulmane. Dentro un hotel, ci ricorda la Mujčić, che oggi è tornato ad ospitare turisti come se nulla fosse accaduto.

Le pagine del libro ruotano attorno a questi fatti, narrandoli in maniera appassionata ma insieme delicata. Non una semplice cronistoria, e nemmeno un elenco dettagliato dei crimini. Un racconto invece attraverso lo sguardo soggettivo e parziale di Zlatan, giovane sarajevita che dall’Italia torna a casa per l’estate. La curiosità, alcuni parenti e un rapporto irrisolto con la guerra, vissuta da adolescente, lo porteranno ad indagare sui fatti della Drina. E inevitabilmente sull’eterno, precario dopoguerra in cui è immersa la sua (ex?) terra. “Eppure erano passati quasi 15 anni dalla fine della guerra ma per la gente pare quasi si tratti di due mesi fa! Forse bisogna fare così per conservare la memoria. Ma a che prezzo! Tutta una vita spesa a conservare la memoria, rivivendo l’incubo. È possibile che sia questo l’unico modo? Non ce n’è un altro che non richieda di morire a ogni passo?” (pag. 96).

Un dubbio pesante, serio, che attraversa tutto il libro come attraversa spesso le menti di chi prova a lavorare con la materia fragile ed esplosiva della memoria storica. Quella miscela fatta di “oggettività” dei fatti, pluralità di sguardi e punti di vista su di essi e soggettività complessa dei sentimenti che generano. La Mujčić l’ha vissuto probabilmente di persona scrivendo il suo primo libro, “Al di là del caos”, sullo sfondo della vicenda di Srebrenica. Ma quello era un racconto autobiografico, che come tale la difendeva abbastanza dalle osservazioni dei lettori. Qui invece, anche se riecheggiano temi ed esperienze personali già affrontate, c’è più intenzionalità, più lavoro di costruzione, forse anche più coraggio. Ed è una riflessione dolorosa ma stimolante. “A che scopo ricordare? Per essere sicuro di non smettere di odiare mai o per far sì che non si ripeta? Che illusione infantile pensare che basti avere memoria perché le cose non si ripetano. A volte, forse, si ripetono proprio perché si ricorda troppo” (pag. 116).

Intervista video di giugno 2009 a Elvira Mujčić sul libro, realizzata da RadioAlzoZero.net


Nel libro incontriamo molte risposte alla domanda se e cosa ricordare, e così nella Bosnia di oggi. C’è chi sceglie semplicemente di dimenticare, o almeno ci prova finché i fantasmi notturni non tornano a svegliarlo. C’è chi si aggrappa al ricordo idilliaco del prima, di com’era bello (ma era bello?) il comunismo titino. Chi abbraccia la religione come nuova identità assoluta, e rilegge con quella anche i fatti passati. Chi infine si affida allo humour tradizionale per distruggere ogni verità, e sopravvivere al presente: “E allora resto qui a vivacchiare, a guardare il ponte e a fare a gara a chi invecchia prima” (pag. 126).

Nazim, lo zio di Zlatan, prova la via più difficile.Quella dell’inchiesta rigorosa sui fatti, della ricostruzione fedele al di là di semplificazioni e schieramenti. “Così sono rimasto solo! (…) I nazionalisti mi vedono troppo debole, percepiscono alcuni miei dubbi e la mia volontà di non farne una questione di nazionalismo. Gli altri mi guardano e pensano che io sia un nazionalista sfegatato” (pag. 103). È curioso, pare di sentire le parole di una persona reale, Mirsad Tokaca, che a Sarajevo con il Research and Documentation Center compie proprio questo sforzo. Ad esempio rintracciando e dando un nome a tutte le vittime della guerra, per sottrarle tanto all’oblio del tempo quanto alle opposte manipolazioni statistiche. E si trova anche lui sotto attacco.

La riflessione sulla memoria non esaurisce comunque la ricchezza del libro. Altri temi lo attraversano: il rapporto complesso tra i bosniaci all’estero e chi è rimasto nel paese; la relazione genitori-figli nel dopoguerra, con l’esigenza di sapere e i tabù sul passato; la condizione di chi si trova ancora extracomunitario in Italia nonostante abbia vissuto qui più di metà della sua vita. “Sono spaccato in due, sono a metà tra due vite, tra due terre, tra due lingue, tra due culture. C’è un prima e un poi e non s’incrociano, non possono farlo in nessun modo” (pag. 86). Toccante il racconto della fuga da Sarajevo di Zlatan sedicenne, e dell’ingresso da clandestino a Trieste. In tempi di respingimenti forzati, dove ai deportati non è concesso nemmeno di far sentire la propria voce, una storia inventata può forse riscattarne molte costrette al silenzio.

Questo è solo un esempio. La Mujčić mantiene in tutto il suo lavoro, come già nel primo libro, una grande capacità di narrare, intrecciando fatti esterni e introspezione personale. Una scrittura molto femminile, verrebbe da dire, nonostante i personaggi principali siano due uomini. È indubbio però che un po’ di lei sia in Zlatan, come un po’ di verità sta in ogni fiction. “Prima di prendere sonno pensai a Fuad: mi figurai per un attimo come sarebbe andata se lui avesse avuto davvero la dinamite o, comunque, avesse alla fine deciso di far brillare la diga. Come sarebbe stata la Bosnia? E la nostra vita? La Drina si sarebbe portata via tutto, sì, ma già così si è portata via tanto. La Drina avrebbe coperto quello che ora sono diventati paesaggi inquietanti costellati di templi religiosi. Chiese e moschee imponenti, ma non per essere più vicini a Dio (...) Per radicarci ancor più nel nostro incubo e non abbassare mai la guardia, per non smettere mai di nutrire l’odio” (pag. 146). La storia non si fa con i se, certo. Ma a volte è più efficace raccontarla così.


Autore: Elvira Mujcic
Anno di pubblicazione:
2009


[FONTE: www.osservatoriobalcani.org]

http://www.booksblog.it/post/4437/intervista-a-elvira-mujcic-autrice-del-libro-e-se-fuad-avesse-avuto-la-dinamite

http://it.peacereporter.net/articolo/8183/Le+parole+della+musica

http://www.babylonbus.org/modules.php?op=modload&name=News&file=article&sid=65076

Libro Nr.3 - Diario di Zlata - Ed. BUR


Zlata Filipovic: una bambina come tante altre. Ma Zlata è nata a Sarajevo e per lei questo significa conoscere, a undici anni, gli orrori della guerra, le notti in cantina, le raffiche dei cecchini, le case in fiamme, la morte. La guerra le porta via tutto, ma Zlata non si arrende e con questo diario vuole ridare la voce, e la vita, ai tremila bambini morti sotto le bombe di una guerra lunga, e forse non ancora conclusa.

ANNO DI PRIMA EDIZIONE: 1995
AUTORE: Zlata Filipovic

Libro Nr2 - Il Violoncellista di Sarajevo - Ed. Mondadori


Per gli storici l'assedio di Sarajevo ha costituito la pagina finale più appropriata di un secolo che ci ha dato conflitti mondiali, armi nucleari, distruzioni immani, genocidi. Siamo proprio a Sarajevo: è un giorno di fine maggio nella città assediata e la gente fa la coda al mercato per comprare il pane. Un colpo di mortaio cade nel bel mezzo della folla e uccide 22 persone. Vedran Smailovic, violoncellista dell'orchestra cittadina, decide di onorare le vittime e per 22 giorni si siederà col suo strumento nel punto dove è avvenuta la strage, per suonare l'Adagio di Albinoni. Probabilmente non sa nemmeno che l'Adagio è stato tratto da un frammento manoscritto trovato fra le rovine di Dresda dopo il terribile bombardamento e incendio che distrusse la città tedesca. La musica è sopravvissuta alla distruzione e forse è per questo che la suona nella piazza martoriata della città bosniaca, proprio dove la gente è morta mentre comprava il pane. Qualcosa deve trionfare sopra l'orrore. Ed è proprio intorno a questa immagine terribile e commovente (basata su un fatto realmente accaduto) che ruota il romanzo di Steven Galloway. I tre protagonisti non si incontrano mai col violoncellista, né tra di loro, ma tutti in un modo o nell'altro sono mossi dalla sua musica. La moglie e la figlia di Dragan sono scappate in Italia prima dell'inizio dell'assedio e lui deve fare un bel pezzo di strada per arrivare al forno per il pane dove lavora (e dove riesce anche a mangiare). Ogni quattro giorni Kenan deve attraversare le pericolose vie della città per andare a fare provvista d'acqua per la moglie, per i figli e per un'anziana vicina mica tanto simpatica. Arrow è una tiratrice scelta. Ha assunto questo nuovo nome per poter dimenticare la propria vecchia vita e ora deve uccidere i soldati nemici appostati sulle colline. In più l'hanno incaricata di proteggere il violoncellista dai cecchini avversari. Camminare per le strade significa correre un rischio mortale: si è continuamente esposti al fuoco dei serbi nascosti sulle colline, ogni viaggio richiede una serie di piccole decisioni che possono avere consequenze letali: che strada prendere, quando attraversare il ponte, soccorrere o no i feriti? La presenza costante della morte e della paura insieme ai piccoli miserabili compromessi quotidiani minacciano di sradicare ogni residuo di umanità. Il romanzo di Galloway segue i cammini tormentati e difficili dei protagonisti, imprigionati nel labirinto di una città devastata dall'odio e dalla guerra ed è proprio la musica del violoncello che a poco a poco li induce a riscoprire quello che ormai avevano dimenticato: che la vita non è quella cosa miserabile e che l'odio non sempre è l'unica disperata soluzione. E che lo spirito umano può rivelarsi, proprio come la musica, impalpabile e indistruttibile.

Autore Steven Galloway
Anno di pubblicazione 2008

[FONTE: www.bol.it]

Libro Nr.1 - Sarajevo Mon Amour - Infinito Edizioni



«Vivo da 40 anni nello stesso quartiere, a Sarajevo, a due passi da un’antica chiesa ortodossa e da una moschea del XVI secolo. E salendo appena, da casa mia, raggiungo il seminario cattolico. Prima della guerra, quest’armonia, nata dalla differenza, si ritrovava nella vita d’ogni giorno… Sarajevo m’ha aperto gli occhi. Ero stupito nel vedere una città così ricca di grandi qualità umane, soprattutto la tolleranza e la generosità».

La guerra, le figure fosche di Milosevic, Karadzic e Mladic, ma anche le contraddizioni e i voltafaccia della componente musulmana durante la guerra e i nazionalismi sorti dalla devastazione bellica sono rivelati e spiegati in un libro carico di pathos destinato a finire tra i grandi volumi di storia.

In questo libro, il militare serbo che difese Sarajevo, che ha “adottato” un nipote musulmano (foto di copertina) e ha fondato la più grande associazione nazionale per aiutare gli orfani di guerra, racconta le bombe, le tribolazioni dei civili, i doppi giochi dei politici bosniaci e della comunità internazionale, la miseria e il desiderio di una pace che in Bosnia non è ancora davvero arrivata.

«Che vuoi che ti dica, compagno Divjak. L’unica cosa che ci resta è l’amore per questa straordinaria terra e per questa città unica al mondo che tu hai difeso con onore e che continui a onorare occupandoti degli orfani di guerra. Posso dirti che ti ringrazio per quello che hai fatto e che fai, ignorando i briganti oggi al potere. Dirti che amo ancora quel luogo come se l’avessi lasciato ieri. Ci torno, e il tempo è come se non fosse passato. Per me è tutto come allora, quando vidi Sarajevo la prima volta sotto la Luna, sotto le ultime nevi dell’Igman» (dall’introduzione di Paolo Rumiz).

Autore: Jovan Divjak

Anno di pubblicazione: 2007

[FONTE: www.infinitoedizioni.it]